
La tempesta innescata dalla lettera vergata da Fabrizio Gifuni, e deflagrata ben oltre i confini territoriali, assesta un grave colpo alla narrazione retorica sulla Capitale della Cultura.
Fabrizio Gifuni, attore, regista, intellettuale di livello, per le sue origini, è stato indicato come il nume tutelare di un’operazione dalle grandi potenzialità. Ci ha messo la faccia, Gifuni, anche a Roma; ma, col passare dei mesi, ha dovuto vivere un’esperienza che getta discredito sulla città, al di là di come la si possa pensare. Il sindaco, Giuseppe Pitta, non ha saputo dire parole che valessero come risposta, non ha chiarito, non ha aiutato i cittadini a capire, perché una tale personalità sia stata trattata in quel modo.
Il discorso va oltre la rassegna teatrale, per la quale Gifuni si è speso, come avvenuto negli anni scorsi, a titolo del tutto gratuito.
Senza stare dalla parte di nessuno, la questione, ci pare, sia un’altra e porta a una domanda: dopo la pomposa presentazione di marzo al teatro dell’Opera (ricordate i sindaci dei Monti Dauni con la fascia e il codazzo delle devote e immancabili associazioni sul palco?) – alla quale il due volte David di Donatello non ha partecipato, neanche in video – chi ha deciso i meccanismi della Capitale regionale della Cultura, quelli che hanno suscitato perplessità, malumori, accuse, defezioni e hanno determinato la chiusura del rapporto con Gifuni? Su questi aspetti sarebbe giusto dire parole chiare, fare luce.
Siamo a fine giugno, sono passati sei mesi, metà 2025 è andato e di “culturale” non si è visto e sentito nulla; mentre, nel ventre della “Capitale” – sostengono alcuni – si fronteggerebbero, il condizionale è d’obbligo, determinati interessi, secondo le regole del tribalismo politico. Questo si sente in giro. Non mancano, all’interno della cornice, i lamenti di personaggi vanagloriosi e autoreferenziali (“incazzatissimi” in questi giorni, ci dicono); mentre, i soliti fanfaroni di lungo corso, comunque, vanno alla ricerca di uno strapuntino di visibilità, di un disperato “ci sono anch’io” da consegnare ai social.
Non è, questo, ciò che la gente immaginava. Molti, sinceramente, cercavano un raggio di sole, uno spiraglio di bellezza per attivare buone e durature pratiche; auspicavano un discorso pubblico rinnovato nel senso e nella prospettiva.
“Capitale della Cultura” è un concetto che, se ben recepito e col giusto humus, può implicare un processo trasformativo, un abbrivio verso orizzonti inediti e, magari, virtuosi, la costruzione di una speranza collettiva incentrata sul rispetto per quello che si ha e per quello che si intende costruire, come corpo unico che declina un’identità.
Ad ogni modo, Lucera è Capitale regionale della Cultura 2025. Di sicuro, si terranno spettacoli e iniziative, anche una rassegna teatrale; ci sarà la Festa Patronale e chissà cos’altro. Verranno gli agognati turisti e visitatori, tanti saranno felici e soddisfatti nel vedere le strade e le piazze affollate, i tavolini prolifereranno all’inverosimile, uno sull’altro, in ogni dove; e sia lodata la cultura. Sempre sia lodata.
Poi, visti i presupposti, tutto, probabilmente, svanirà; verrà il tempo di pensare alle elezioni (il sacro obiettivo) e nessuno tornerà più a questa tumultuosa e strampalata estate della “Capitale”, che, oggi, appare quanto mai “mutilata” (come la “Vittoria mutilata” italiana nella Grande Guerra).
E mica solo perché un grande personaggio della cultura nazionale si è sentito obbligato a gettare la spugna.
SUNDAY RADIO – IL BLOG