Una festa senza libertà. Reclusi nelle nostre case, costretti a rinunciare a quel “con chi vuoi” che, nel famoso detto, si abbina da sempre alla Pasqua e che oggi sarebbe la formula verso la felicità, dopo settimane di quarantena.
Mai successo prima in tempo di pace; mai avremmo pensato di poterci trovare in una simile condizione a causa di un’emergenza sanitaria che ha messo in ginocchio il nostro sistema di vita, assestando un colpo micidiale a ogni certezza, all’idea stessa di modernità, almeno nella forma che vi abbiamo sin qui dato.
Siamo tutti più fragili e confinati nello spazio domestico, che è il rifugio di sempre ma anche una prigione. L’orizzonte è la finestra, è il balcone, aperture visuali su un mondo che oggi percepiamo pieno di insidie. Sull’uscio di casa già ci sentiamo stranieri e costretti ad aggrapparci a inedite precauzioni: non toccare questo, non toccare quello. Senso civico, oggi, vuol dire soprattutto mantenere la distanza dai nostri simili e, forse, anche da quello che siamo stati fino a ieri, liberi e inconsapevoli.
Ci difendiamo con l’isolamento, la separazione, il taglio delle consuetudini, la sospensione delle abitudini. Ci osserviamo e ci percepiamo da lontano. La pandemia, però, si infila nel profondo, attacca le conquiste sociali, ci incatena, fa a pezzi il lavoro, decide per noi come abitare un Paese che trema di paura.
La paura ci tiene lontano dalla minaccia del contagio e, quando tutto sarà finito, il ricordo di essa deve diventare il terreno sul quale verificare cosa nasce e cosa muore tutt’intorno, cosa non ci viene restituito e cosa, al contrario, ci viene dato per i sacrifici fatti.
Una Pasqua di reclusione è un “passaggio” da non sprecare, se quello che vogliamo intraprendere, e difendere, sia un cammino di progresso civile tra solidarietà e giustizia sociale.
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