La morte di Fallaye Dabo è anche un po’ la nostra morte

Fallaye Dabo

La morte di Fallaye Dabo, il ragazzo del Mali di 28 anni suicidatosi, nei giorni scorsi, nelle campagne di Lucera, riporta tragicamente l’attenzione sulle condizioni del lavoro bracciantile e, in generale, di quelle degli ultimi. Un popolo del quale l’agricoltura del nostro territorio non può fare a meno e che sopporta grandi e ataviche sofferenze e la ghettizzazione come sola e unica prospettiva per il futuro.

I processi socio economici in atto, sotto la spinta impressa da politiche liberiste che accettano e tutelano le rinvigorite pretese dei gruppi dominanti, continuano a tradursi in emigrazione per tanti giovani meridionali e nello sfruttamento dei lavoratori stranieri che hanno lasciato i loro paesi, seguendo il sogno di una vita migliore.

Nell’indifferenza generale, l’ignoranza, la protervia e l’avidità si appropriano della vita di persone a cui non vengono riconosciuti dignità e diritti e che, anzi, non di rado, sono viste come bestie da soma condannate all’abbrutimento.

I morsi della crisi globale, su cui si innestano i drammatici effetti della pandemia, colpiscono, senza pietà, il corpo sociale, risparmiando, e in molti casi rafforzando, le prerogative di chi detiene il potere economico, utilizzato per imprimere sempre più – complice un ceto politico in gran parte sottomesso, autoreferenziale e inadeguato – le direttrici desiderate alla vita delle comunità. La miseria, o la paura di essa, il convincimento che non ci siano speranze scatenano, invece, la guerra tra poveri, con esiti devastanti, o scavano nello sconforto, fino al gesto estremo.

Tocca alla politica, o, forse, è più adatto dire che toccherebbe alla politica, visti i tempi, recuperare la credibilità persa e la capacità più alta di creare scenari in cui emergano prima di tutto la giustizia sociale e la solidarietà, ambendo ad una visione verso la quale avviarsi con coraggio, non cedendo ai ricatti dei vari potentati e sfidando le pulsioni populiste, da qualsiasi parte esse arrivino.

Solo questo potrà, o potrebbe, rendere giustizia a chi sia morto di lavoro e per il lavoro che manca, a chi si sia sentito costantemente un corpo estraneo, rifiutato, perseguitato, deriso, perché “straniero”, “terrone”, “diverso”, “povero”.

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