Leggere una città, quando si è parte di essa. E’ possibile farlo con obiettività, da dentro, da suoi cittadini, senza rischiare di essere risucchiati dalle convenzioni su cui poggia il senso comune? Probabilmente, sì. Ma a patto di riuscire ad indossare occhi “stranieri”, operazione non sempre agevole, perché serve un certo sforzo. Capire che si può andare oltre, cambiando prospettiva.
Una città la leggiamo già nell’intreccio di strade e vicoli, nelle piazze, negli slarghi; osservando i portoni, le scale, le pietre antiche, i cortili; seguendo il profilo dei tetti. Distaccandosi dalle parole.
Il centro storico rimane il cuore di una città; da qui, se c’è, si irradia la forza di un luogo in ogni direzione e dimensione e abbraccia tutto il resto. Nel senso più ampio, una città è quello che è il modo in cui si presentano il suo centro storico e gli spazi in cui risiede la memoria.
Uno sciame di voci, spesso distratte, spesso stonate, in campagna elettorale come in qualsiasi altro momento e negli ambiti più disparati, si esibisce in iperboli retoriche che portano sempre verso una direzione. Il viaggio, però, non è in ascesa e neanche lineare; forse è in discesa. Non c’è congruenza, affinità, sovrapposizione con i contenuti diffusi da quelle voci. Quello che vediamo e sentiamo risulta diverso.
Il nostro centro storico, in larga parte, è un confuso catalogo di abbandoni, una grigia esibizione della solitudine. Il racconto di un’assenza. Soprattutto, è la negazione evidente proprio di “città d’arte”, espressione che passa di bocca in bocca, ormai, con la facilità di una risata e si dissolve al cospetto della realtà. Il centro storico rasenta, in troppi punti, la condizione di un guscio vuoto: il contenuto ideale, l’amore per la tradizione, l’esaltazione del bello si fa fatica a riconoscerli. E allora cammini tra ruderi, tra eterni “si affitta”, “si loca”, “si vende”; cammini tra porte sbarrate, finestre buie e cancelli che si chiudono come confini per tenere lontani la paura e il degrado. Può capitare pure di incontrare cumuli di sacchetti di immondizia. Città d’arte, città della cultura? Non proprio.
Lucera non ha puntato sul centro storico; mentalmente, lo ha quasi messo da parte. L’idea di modernità, qui, si è pensato si trovasse altrove. Ma era modernità? No di certo, era qualcosa d’altro, che ha accompagnato uno svuotamento, anche di sentimento. Ci sono luoghi dove la custodia dell’identità culturale è passata intatta di generazione in generazione e questo processo ha distillato, nel tempo, anche i criteri per innescare un meccanismo di difesa, quindi la capacità di riconoscere i limiti – se possibile, da non oltrepassare in nessun modo e in nessun caso – al fine di non arrecare danno alla rappresentazione della coscienza culturale di un popolo. Per dirla diversamente, all’immagine di una città che intende progredire.
Qualcuno, in passato, ha detto che quello che non si riconosce non ci appartiene. Quindi, il vero valore si attribuisce solo con l’esperienza della conoscenza, che genera, se compresa, senso di appartenenza. Un territorio, per decenni, sfregiato dagli abusi è testimone di un debito di conoscenza, quindi di passione, di amore.
La città d’arte è, innanzitutto, una scelta da cittadini consapevoli che vogliono imparare a conoscere e a conoscersi. Quella città d’arte – che non è solo la presenza di una certa quantità di importanti monumenti, dei quali, tuttavia, bisogna capire il valore per proteggerli – si costruisce puntando a una coerente idea del bene comune.
Nelle vie, nei vicoli, nelle piazze, negli slarghi e negli atteggiamenti si avverte, purtroppo, il segno di un costante errore. Rimediabile? Chissà. Per ora, un fantasma si aggira tra di noi: ed è proprio il fantasma della città d’arte.
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