Sarajevo 1914 – l’attentato che incendiò il mondo

RIGHE DI STORIA

È stato uno dei grandi delitti della Storia: l’attentato di Sarajevo, i due colpi di pistola che scatenarono la più grave tragedia che l’umanità avesse fino ad allora conosciuto.

Quel giorno, il 28 giugno 1914, la mira del diciannovenne serbo-bosniaco Gavrilo Princip, uno dei sette cospiratori presenti tra la folla, non fallì, provocando la morte dell’erede al trono dell’Impero austro-ungarico, l’arciduca Francesco Ferdinando, e di sua moglie, Sophie Chotek, giunti in visita ufficiale nella capitale bosniaca, dove covava il risentimento di coloro che desideravano vedere la Bosnia liberarsi dal giogo austro-ungarico, per unirsi alla Serbia. E Vienna nelle ambizioni dei serbi, ispirate al panslavismo con l’appoggio della Russia, vedeva una minaccia per le province meridionali del suo impero.

Francesco Giuseppe, quando i generali dello stato maggiore gli parlavano della necessità di muovere guerra all’Italia e alla Serbia, per ridurre i rischi di vedere l’Austria-Ungheria ridotta al rango di piccola potenza, rispondeva che la sua era una politica di pace. L’anziano kaiser, un uomo colpito da gravi tragedie familiari, come il suicidio del figlio, ed erede al trono, Rodolfo e l’assassinio della moglie, Elisabetta di Baviera, ebbe sempre rapporti tesi con l’arciduca Francesco Ferdinando, perché non aveva accettato il suo matrimonio d’amore con una donna della nobiltà boema non appartenente a una dinastia regnante, quindi, considerata di rango inferiore.

Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, figlio di Carlo Ludovico di Asburgo e di Maria Annunziata di Borbone, sorella dell’ultimo re delle Due Sicilie, Francesco II, aveva un carattere duro, facile all’ira; era militarista ma non guerrafondaio. “Non ha sentimenti per quella regione inesplorata che i viennesi chiamano cuore”, scrisse di lui il giornalista e scrittore suo contemporaneo Karl Kraus. Un uomo non amato, anche perché aveva intuito la necessità di riformare l’architettura duale dell’Impero, per arrestarne la decadenza,  ipotizzando l’istituzione di un regno degli slavi. Un progetto che non piaceva agli ungheresi e alla Serbia.

Con la Belle epoque, l’Europa aveva vissuto decenni di pace e progresso; le grandi potenze avevano combattuto lontane guerre coloniali per assicurarsi lo sfruttamento di importanti risorse, ma questo aveva originato anche una miscela di antagonismi e rancori tra stati e popoli nella quale, per molti, già all’inizio del secolo, si annidava il pericolo di un esteso conflitto continentale, pur esistendo una interdipendenza economica e industriale e solidi accordi commerciali.

Sebbene preoccupati dai nuovi eventi nella polveriera balcanica, l’imperatore e lo stesso kaiser di Germania confidavano che la crisi sarebbe rimasta circoscritta in quell’area, anche se la parola fosse passata alle armi, per regolare definitivamente, e in fretta, i conti con i serbi, accusati di avere organizzato l’attentato, mettendo i russi davanti al fatto compiuto. Così non fu; pur volendola scongiurare, tutti si prepararono alla guerra, perché le insistenze degli influenti stati maggiori, il sistema degli accordi e delle alleanze, l’orgoglio nazionale ebbero il sopravvento sulle ragioni della politica e della diplomazia.

E, a un mese da Sarajevo, dopo il rifiuto della Serbia ad accettare nel complesso l’umiliante ultimatum austro-ungarico, fu guerra totale, distruttiva. L’ultima guerra antica e la prima delle guerre moderne provocò milioni di morti, tra militari e civili; segnò il declino dell’Europa e cancellò imperi e nazioni, gettando i semi velenosi di altre immani catastrofi, destinate a segnare il corpo e l’anima del Novecento.

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