Rilanciare la Memoria attiva per onorare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Trent’anni dalla morte di Giovanni Falcone e, a luglio, trent’anni dalla morte di Paolo Borselllino. Nel giro di poco meno di due mesi, due sconvolgenti attentati dinamitardi annientarono la vita di Uomini diventati baluardo e speranza dell’Italia civile, l’Italia della Costituzione repubblicana. Un’amicizia, la loro, che incarnava la lucidità, lo spirito di corpo, ma forse anche la temerarietà dello Stato, che intendeva, con i suoi servitori migliori, difendere le prerogative democratiche di un Paese spinto nel gioco crudele e violento di ataviche ambiguità. Capaci e Via D’Amelio sono stazioni di quella lunga via crucis disseminata di morte e sangue che attraversa la nostra storia, la rappresentazione tragica di incancreniti silenzi opposti a domande che si fanno sempre più flebili.

“Non sono Robin Hood, né un kamikaze e tantomeno un trappista. Sono semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium“, dice Giovanni Falcone in Cose di Cosa Nostra, il libro scritto con la collaborazione di Marcelle Padovani. Parole con le quali il Giudice cerca di uscire dall’aura di leggendario combattente senza paura, ricollocando nell’ambito di una normale attività professionale il suo coraggioso lavoro, teso, per senso del dovere, a penetrare, per la prima volta con efficacia, i segreti della mafia e ad accertare le aderenze di essa con altri poteri, le “menti raffinatissime”, di cui parlava. E la terra infidelium era anche quella che, non di rado, guardava con beffarda ironia alle enormi capacità di lavoro e all’abnegazione che dimostrava. La sua abitazione era presidiata dalla polizia giorno e notte. Alcuni inquilini dello stabile non trovarono di meglio che suggerire, in una lettera al Giornale di Sicilia, di riunire tutti i magistrati che costituivano un rischio per la sicurezza degli altri in una specie di fortino, magari in una prigione. Nella lotta alla piovra mafiosa, la lealtà allo Stato comportava – e comporta – per il coraggio e i moti della coscienza, la solitudine, l’isolamento di parole e gesti, l’identificazione con i profanatori dell’inviolabile, a cui bisogna fare terra bruciata intorno, perché non diano fastidio, perché non costituiscano pericolo, perché non arrivino in alto, a quello che veniva definito “il terzo livello”, cioè la rete all’interno della quale si annidavano i veri responsabili degli omicidi. Un supercomitato costituito da politici, massoni, banchieri, alti burocrati, capitani d’industria, in grado di impartire ordini alla cupola mafiosa. “Niente è ritenuto innocente in Sicilia”, pensava Giovanni Falcone. “Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono eroi luminosissimi, volti, come quelli di tanti altri Caduti nella lotta al malaffare, di un Paese schierato dalla parte della legalità, che, tuttavia, perde la sua guerra se commette l’errore di dimenticare, se si lascia intimorire dalla protervia del potere, se pensa che il contributo del singolo cittadino sia isolato e vano. La Memoria attiva, fuori dalla retorica, è un’arma potente, che, però, chiede coraggio, la determinazione di non girarsi dall’altra parte, la convinzione di sentirsi parte dello Stato. A Palermo e in ogni luogo dove le istituzioni e la società civile siano drammaticamente costrette sulla difensiva.

SUNDAY RADIO – IL BLOG

About the author