
E’ passato un secolo dall’eccidio dell’11 luglio 1919, una strage che, a Lucera, è ancora oggi sconosciuta alla gran parte della popolazione, una grave ferita nella memoria su una pagina tragica e sanguinosa della nostra storia.
Nell’immediato primo dopoguerra, la città, come del resto l’intero Paese, faceva i conti con la profonda crisi socio-economica che la terribile guerra combattuta contro gli Imperi centrali e a fianco dell’Intesa aveva generato. L’Italia era sommersa dai debiti contratti a causa del conflitto, soprattutto con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti; uno stato di cose che incideva drammaticamente sulle condizioni dei ceti più deboli, ridotti in miseria. Disoccupazione, povertà e sfiducia dilagavano; il caroviveri faceva montare la rabbia ed eccitava gli animi; da nord a sud della Penisola non si contavano gli scioperi dei lavoratori e le manifestazioni di protesta che, non di rado, assumevano il carattere di tumulto; le forze dell’ordine e l’esercito intervenivano con durezza; decine i morti, centinaia i feriti e gli arresti. Aleggiava lo spettro della rivoluzione bolscevica.
Quel giorno di cento anni fa, a Lucera, continuava uno sciopero di protesta indetto dalla Camera del Lavoro, perché venisse applicato un calmiere ai prezzi dei generi di prima necessità. Furono ore di grande tensione, con incidenti ed episodi di intemperanza. I manifestanti, sfidando il presidio delle forze dell’ordine, tentarono anche di interrompere l’attività del tribunale, chiedendo agli impiegati di unirsi alla protesta; mentre, da Foggia, furono inviati reparti di soldati e carabinieri, che si aggiunsero alla forza già presente dai giorni precedenti, al fine di occupare militarmente la città.
Nel pomeriggio, quando la manifestazione praticamente si era conclusa, perché era stata, tra le parti, raggiunta una forma di accordo nella sede del Comune, fu un diverbio tra due delegati di polizia, che stavano per tornare nel Capoluogo, e alcuni uomini, che sostenevano di essere stati da quelli ingiuriati, in piazza Umberto I, oggi piazza Gramsci, ad appiccare il fuoco della tragedia. Una parola tira l’altra, i delegati furono aggrediti con dei bastoni; i due, per scampare al linciaggio, e impugnando le pistole, si rifugiarono nell’Albergo De Troia (nella foto), dove furono assediati, insieme a un altro collega che a loro si unì in seguito; alcuni tra i più esagitati, per raggiungerli, tentarono di penetrare nell’edificio dai tetti.
La protesta, diventata tumulto per l’arrivo di altra gente, ancora eccitata per quanto accaduto in mattinata, fu contrastata dall’intervento di un reparto di cavalleggeri, soldati e carabinieri che, prima tentarono di arginare l’impeto dei dimostranti, poi spararono sulla folla inferocita, quando fu deciso di far uscire dall’albergo gli assediati. Alla fine, si contarono dieci morti e diverse decine di feriti.
La vicenda, la più grave di quel drammatico periodo, giunse anche in Parlamento.
Per quei tragici fatti, a carico dei dimostranti, ci furono cinque condanne con pene miti; nessun carabiniere fu incriminato. Un ardito, che dopo l’eccidio fece perdere le sue tracce, invece, fu condannato in contumacia a quattordici anni per l’uccisione di un giovane, militare in licenza, avvenuta in via San Domenico, nei pressi della caserma dei carabinieri, nelle ore successive alla strage.
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