RIGHE DI STORIA
Il 10 giugno 1940, l’Italia entra in guerra al fianco della Germania di Adolf Hitler. Benito Mussolini annuncia l’intervento contro Francia e Regno Unito, alle 18, dal balcone di palazzo Venezia a una piazza, come sempre, gremita e ben istruita dalla propaganda bellicista. Il Duce decide di compiere il grande passo, nonostante l’avvertimento di Pietro Badoglio, capo di stato maggiore generale, sulle inadeguate condizioni delle nostre forze armate. Ma il capo del fascismo, suggestionato dai travolgenti successi in Europa delle armate naziste, ritiene che la decisione non sia più rimandabile. Mussolini cerca di persuadersi di avere l’appoggio della pubblica opinione, che, al contrario, nutre forti perplessità e viva preoccupazione di fronte al profilarsi degli eventi. Il Duce invita gli italiani a continuare con la consueta vita di tutti i giorni ed evita di chiedere una mobilitazione generale. Intanto, confida nella rapida vittoria di Hitler, l’unico modo per potersi sedere, con il minimo sacrificio di vite umane, al tavolo della pace.
Germania nazista e Italia fascista avevano formalizzato, il 22 maggio 1939, un’alleanza militare di natura aggressiva, il Patto d’Acciaio. La propaganda ne aveva esaltato lo spirito unitario, pur essendo evidenti le differenze nelle relazioni tra i due paesi. L’invasione della Polonia, tuttavia, aveva lasciato Mussolini di stucco, di fronte al rischio di essere trascinato in guerra; così, dopo ripetuti tentennamenti e assurde richieste di aiuto a Berlino, era stato costretto a dire a Hitler che non si trovava nelle condizioni di affiancare la Germania nelle operazioni militari. Il regime aveva definito “non belligeranza” quella fase che non poteva chiamare di neutralità, dopo i proclami esaltanti il presunto spirito guerresco degli italiani. Spirito vivo solo nella retorica, e nei sogni, di Mussolini e dei suoi gerarchi. Nonostante tutto, Hitler non aveva perso la speranza di vedere l’Italia onorare gli impegni presi col Patto d’Acciaio: Mussolini rimaneva il suo antico alleato, l’unico sul quale credeva di poter contare, pur considerandolo con sospetto e, ormai, partner di livello inferiore, sempre indeciso, privo di una politica coerente e alle prese con una confusa riorganizzazione delle forze armate. Questi dissapori non avevano impedito ai tedeschi di chiedere l’invio di lavoratori da impiegare nei loro settori agricolo e industriale, sotto pressione a causa della guerra. Persone, diverse migliaia, che in Germania subivano continue vessazioni. Gli italiani erano considerati razzialmente inferiori e totalmente inaffidabili.
Nella primavera del 1940, il previsto crollo della Francia, quindi, convince il Duce ad uscire, opportunisticamente, dalla non belligeranza e a schierare l’Italia dalla parte della svastica, per una guerra rapida, finale e molto utile al regime fascista. Hitler, appresa la notizia, si complimenta con il suo alleato di Roma, ma in privato, davanti ai suoi generali, è molto duro: “Questa è la peggiore dichiarazione di guerra al mondo […] Non avrei immaginato il Duce così primitivo […] Ci sarebbe da interrogarsi ultimamente sulla sua ingenuità […] addirittura bisognerà in futuro essere più attenti nei confronti degli italiani nelle questioni politiche”. Il maggiore Gerhard Engel, aiutante militare di Hitler, aggiunge: “Una questione imbarazzante davvero: prima sono stati troppo codardi per intervenire, e ora corrono per partecipare al bottino di guerra”. Al capo del fascismo, però, che considera Hitler un cinico senza dio e i tedeschi alla stregua di un’accozzaglia di barbari sanguinari, alle ore 18 del 10 giugno, interessa solo annunciare alla folla plaudente di piazza Venezia e al Paese intero che l’Italia fascista si avvia verso il suo destino di pretesa grandezza, al grido di: “Vincere!”.
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