L’orrore di Hiroshima e Nagasaki non è mai finito; i funghi atomici di “Little boy” e “Fat man” continuano sinistramente a stagliarsi sull’orizzonte della Storia. A distanza di oltre sette decenni, quello che accadde nell’agosto del 1945 rimane la dimostrazione più feroce della potenza distruttiva della guerra e della capacità di annientamento del nemico assicurata agli eserciti dalla tecnologia e dal progresso scientifico.
A maggio, la Germania nazista si era arresa; ma, in oriente, l’Impero del Sol Levante conduceva ancora una strenua difesa, apprestandosi a compiere ogni possibile sforzo pur di non dichiararsi vinto. Gli americani martoriavano il Giappone con bombardamenti incessanti e pensavano, dopo gli sbarchi a Iwo Jima e Okinawa, di poter avviare l’invasione del suo territorio metropolitano nel novembre successivo, cosa che, nelle previsioni, avrebbe portato alla fine delle ostilità nella primavera del 1946. Ma tutto questo, secondo gli strateghi alleati, avrebbe richiesto un insopportabile sacrificio di vite umane, da una parte e dall’altra, vista l’ostinazione nemica.
Intanto, con l’esito positivo dell’esperimento effettuato, il 16 luglio, ad Alamogordo, nel deserto del Nuovo Messico, la bomba atomica era pronta per l’impiego bellico. Un gruppo di scienziati, sotto la guida Robert Oppenheimer, era al lavoro (Progetto Manhattan) dal 1942.
Stati Uniti, Gran Bretagna e la Cina di Chiang Kai Shek, il 24 luglio, chiesero a Tokyo la resa incondizionata; ma, seppure il Paese fosse ormai in ginocchio, non giungevano risposte dalla capitale nipponica: prevalevano ancora l’orgoglio nazionalista e la volontà della casta militare di continuare la guerra ad ogni costo e fino all’ultimo uomo.
Il presidente Truman, allora, assunse la storica decisione di lanciare l’atomica per abbreviare il conflitto, il che avrebbe risparmiato la vita a migliaia di soldati statunitensi, ma anche offerto agli scienziati l’occasione per testare su un’area popolata l’effettiva, raccapricciante efficacia della nuova arma, la cui realizzazione era costata qualcosa come due miliardi di dollari. Ragione, quest’ultima, molto più che inconfessabile e collegata al monito di potenza da lanciare al nemico degli anni futuri, l’Unione Sovietica.
Il B 29 “Enola Gay”, partito alle 2,45 del 6 agosto dall’isola di Tinian, nell’arcipelago delle Marianne, sganciò la bomba all’uranio su Hiroshima, radendola al suolo, un quarto d’ora dopo le 8. Tuttavia, in assenza di risposte al rinnovato ultimatum che chiedeva ai giapponesi di arrendersi, gli americani avevano stabilito di lanciare un secondo ordigno, al plutonio, l’11 agosto. A causa del cattivo tempo previsto per il giorno fissato, però, la data della missione fu anticipata di quarantotto ore, al 9 agosto. L’obiettivo individuato era Kokura, ma le nubi che coprivano quella città orientarono il B 29 “Bock’s Car” verso Nagasaki, che fu anch’essa annientata.
Di fronte a quell’apocalisse di morte, il Giappone capitolò; la guerra si concluse e si aprì, per alcuni, la stagione del pentimento, della crisi di coscienza; per altri, quella delle accuse di crimini di guerra agli Stati Uniti che, da potenza egemone, mai pagarono per l’impiego di simili ordigni su città inermi.
Il numero impressionante di vittime, l’efferata capacità distruttiva di “Little Boy” e “Fat Man” imposero un nuovo percorso alla storia dell’Umanità, cambiando per sempre, visto il proliferare degli arsenali, il modo di concepire i rapporti tra le nazioni, la diplomazia e i conflitti.
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