Diego Armando Maradona non c’è più. Non c’è più in carne ed ossa; rimane tutto il resto. Rimane la sua storia passata sui campi di calcio, da quelli polverosi di Lanus, nella provincia argentina, dove tutto è cominciato, al San Paolo di Fuorigrotta. Rimane la fortuna, per noi, pur nella tristezza di queste ore, di essere stati suoi contemporanei, anche avendolo visto giocare solo in televisione. La sua, è stata un’avventura passata a sottrarre il pallone alle leggi della fisica; ad addomesticare il cuoio perché questo potesse essere l’interprete, l’oggetto “vivo”, la via attraverso il quale si rivelava la magia della sua classe immensa.
Un uomo, e un atleta, che ha suscitato entusiasmi fuori dal comune, fino a identificarsi con lo spirito, la rabbia, le contraddizioni e i sogni dell’America latina e della città di Napoli, bella e disperata capitale decaduta, capace di offrirgli un amore puro e incondizionato, soprattutto, eterno. Maradona è Napoli e Napoli è Maradona; nessun altro calciatore, per quanto bravo, ha potuto, poi, vestire la maglia azzurra numero 10 del Pibe de oro, vicino al Vesuvio. E sarà così per sempre, per giuramento di fede e per vendetta contro la sorte.
Diego Armando Maradona ha guidato il Napoli alla gloria di due scudetti e a quella di una coppa europea e, quasi da solo, la Nazionale albiceleste del suo Paese alla conquista del mondiale messicano del 1986 e in quello italiano, quattro anni dopo, quando i napoletani, proprio al San Paolo, vissero il dramma di una passione troppo forte per l’idolo argentino messa al cospetto dell’altro azzurro vergato dal Tricolore. In quella notte storica e non facile per Napoli, fu Diego ad avere l’ultima parola, segnando il calcio di rigore che impedì all’Italia di Azeglio Vicini l’accesso alla finale di Roma contro la Germania Ovest di Matthaus, Klinsmann e Voller. I napoletani non si sentirono sconfitti, neanche per un secondo.
Maradona era padrone incontrastato del cuore di un popolo, in virtù di un legame che andava oltre il normale rapporto campione-tifosi. Uomo contro, lui, città contro, non per suo volere, Napoli, dove, dicono, sia stato il destino a portarlo. Qualcosa che doveva accadere per forza, insomma; l’arrivo di un messia a risarcire e ad annunciare un nuovo credo: la mistica del più grande del pallone che ha edificato un’epica identitaria, oltre il calcio, non solo per il calcio.
Diego, napoletano per scelta, meridionale per orgoglio e temperamento, è riuscito a trasformarsi da uomo-squadra in uomo-città e a entrare nel pantheon moderno delle divinità laiche partenopee, accanto a Eduardo, a Totò, a Massimo Troisi, a Pino Daniele.
Diego Armando Maradona ha maneggiato la sua vita, a volte, con poca cautela; forse ha creduto nel mito dell’eroe invincibile, quale era, certamente, sul campo; forse, ha avuto amici-nemici che hanno abusato dei suoi segreti di ragazzo fragile.
Oggi, di questo, nulla più conta, per chi lo ha amato, e dovrebbe valere anche per coloro che sono stati capaci di detestato. Si consegna all’eternità, invece, quello che ha saputo fare “palla al piede” (e con la mano…) nella inimitabile bellezza della sua vicenda sportiva, con il numero 10 sulle spalle e la faccia da scugnizzo totalmente napoletano.
Lo scugnizzo che seppe farsi leggenda.
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