Addio ad un mito – Paolo Rossi era un ragazzo come noi

5 luglio 1982, Rossi con Junior

E’ morto anche Paolo Rossi. Se ne è andato troppo presto il grande Pablito, a 64 anni. Un altro grave lutto per lo sport, non solo italiano.

Paolo Rossi è il calciatore assurto a simbolo di un’Italia che, contro tutto e tutti, seppe ritornare grande e nel modo più gratificante: salendo sul tetto del mondo nella magica notte di Madrid. E fu capocannoniere di quel mundial con sei reti e miglior giocatore, per cui gli assegnarono il Pallone d’oro. Rossi visse un avvincente romanzo del calcio, impresso a caratteri cubitali, nella storia della Nazionale e nell’immaginario collettivo.

Per le cose stupefacenti che aveva fatto vedere con la maglia del piccolo Lanerossi Vicenza, nella stagione 1977-78 – capocannoniere del campionato con 24 goal, spingendo la squadra biancorossa a chiudere al secondo posto – si guadagnò la convocazione nella Nazionale che, dopo la disfatta di quattro anni prima in Germania, senza certezze, partiva per l’Argentina, dove il mundial si sarebbe svolto sotto l’occhio della dittatura militare.

Enzo Bearzot lanciò subito nella mischia i suoi giovani, con Rossi (classe 1956) c’era anche Cabrini (classe 1957). La nuova Italia stupì, per la personalità e per il bel gioco; gli Azzurri batterono anche l’Argentina, che vinse il titolo, ma finirono quarti, sconfitti nella piccola finale dal Brasile di Dirceu. Rossi segnò in tutto 3 goal, in quel torneo; ma il mondo capì di aver trovato un campione. A dispetto del fisico, non gladiatorio, era un centravanti di razza; in area di rigore, astuto e rapido come un cobra. Per la stampa, in Argentina, divenne Pablito. L’Italia calcistica, entusiasta, dopo Gigi Riva, aveva un nuovo eroe; “Paolo Rossi era un ragazzo come noi”, per dirla con Antonello Venditti, con un sorriso che ti conquistava e una grande intelligenza tattica.

La storia di Paolo Rossi continuò, toccando, a causa di qualche leggerezza, anche il brutto momento del calcio scommesse, che gli costò due anni di squalifica e una seria ammaccatura all’autostima. Ma, sulla strada di Spagna ’82, un uomo, che gli voleva bene e che credeva in lui, lo stava aspettando, Enzo Bearzot. Il commissario tecnico lo convocò; e difese la sua scelta dai numerosi attacchi, perché Rossi, idolo decaduto, era tornato a giocare da poche settimane e Pruzzo aveva segnato molto in campionato.

L’Italia disputò zoppicando parecchio la prima fase; Rossi, un fantasma in campo. I giornalisti non risparmiarono nulla agli Azzurri, scendendo anche a livelli davvero infimi, colpendo con cattiveria proprio Rossi e Cabrini. Ma Bearzot assorbì tutte le critiche, fece da parafulmine per difendere i suoi ragazzi. La Nazionale entrò in silenzio stampa. Qualcosa di impensabile oggi.

L’isolamento ebbe un effetto trasformativo; e il 29 giugno 1982, inaspettatamente, al Sarrià di Barcellona, lo stadio dell’Espaniol, la seconda squadra della capitale catalana, l’Italia batté l’Argentina di Maradona, Passarella, Bertoni, Ardiles, Kempes, senza un significativo apporto di Rossi. All’orizzonte, si stagliò, così, il Brasile di Zico, Falcao, Socrates, Cerezo, Junior. Cosa poteva rappresentare quell’Italia ancora malandata, pur vittoriosa sui campioni del mondo uscenti, per una poderosa macchina da goal che fino a quel momento aveva passeggiato senza alcuna fatica? La pratica, la nazionale verdeoro, tutti pensavano, l’avrebbe archiviata il 5 luglio, nell’angusto Sarrià.

In un pomeriggio di luce accecante, nel fragore della torcida brasiliana, l’Italia del calcio era ridotta a una pattuglia di giocatori con la maglia azzurra, accudita dalla fede incrollabile di Enzo Bearzot, l’uomo con la pipa, la “scimmia”, come qualcuno, privo di pudore, nel clima avvelenato che si era creato, aveva osato definirlo.

Su quel rettangolo d’erba non erano previsti miracoli; ma, quasi subito, l’incertezza difensiva dei brasiliani, mai stati impeccabili dietro, aprì lo spazio all’inatteso, che, d’improvviso, come quando si manifesta il sublime, rianimò i sopiti sensi e le qualità del predatore. Rossi fu spietato per tre volte, da par suo, tre stilettate da killer all’orgoglio di un Brasile stratosferico che reagì con la rabbia dei suoi fuoriclasse, fino alla fine. Ma niente, quella era l’Italia che rinasceva e Rossi era finalmente tornato Pablito.

L’8 luglio, il centravanti di Bearzot, è il caso di dirlo, in semifinale, sempre a Barcellona, ma al Camp Nou, realizzò una doppietta alla Polonia. La strada per Madrid era spianata.

Al Santiago Bernabeu, con la Germania Ovest, domenica 11 luglio 1982, Rossi fu preso in custodia da Karl Heinz Forster, un mastino, dicevano, insuperabile. Non per il numero 20 azzurro, che lo beffò in area di rigore, aprendo le marcature italiane.

Nella notte della più grande impresa dello sport italiano, con la benedizione del presidente Pertini, Paolo Rossi si riprese la bellezza del suo mito, diventando Pablito in eterno, uno dei simboli incancellabili del calcio e di un Paese che, nelle sue sciagure, con l’impegno, il talento e la volontà, la Storia ce lo ricorda, ha sempre saputo trovare la forza per rialzarsi.

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